Il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto
legge per il risanamento ambientale e la continuità produttiva dell'Ilva di
Taranto, che recepisce le indicazioni emerse nel corso dell'incontro tra
Governo, parti sociali, amministratori locali e vertici aziendali del 29
novembre scorso.
"Non
possiamo ammettere che ci siano contrapposizioni drammatiche tra salute e
lavoro, tra ambiente e lavoro e non è neppure ammissibile che l'Italia possa
dare di sè un'immagine, in un sito produttivo così importante, di incoerenza".
Lo ha detto Mario Monti al termine
del Consiglio dei ministri che ha varato il decreto Ilva o decreto, come
puntualizzato da Monti, "decreto salva ambiente-salute-lavoro". "L'intervento del governo è stato
necessario perché Taranto è un asset strategico regionale e nazionale",
ha aggiunto Monti.
La Fim-CISL, attraverso il suo segretario nazionale Bentivogli, ha espresso un giudizio positivo
sull`approvazione del decreto Ilva da parte del Consiglio dei Ministri. "Riteniamo che il testo consenta il giusto
equilibrio utile a consentire l`applicazione dell`Aia approvata il 26 ottobre e
non riproporre lo scontro muscolare di questi mesi". "Il
decreto rafforza l`Aia che ottiene status di legge primaria, obbliga
perentoriamente l`azienda ad attenersi al rispetto inderogabile delle procedure
e dei tempi del risanamento. Riteniamo - ha aggiunto - di grande valore la creazione della figura del Garante della vigilanza
sull'attuazione degli adempimenti ambientali anche al fine di superare lo
scontro istituzionale generato attorno a questa vicenda».
"Sono mesi - ha detto il segretario CISL Bonanni - che teniamo desta l'attenzione con iniziative che sottolineano una
situazione intollerabile per il lavoro non solo perché‚ viene messo in
discussione ma anche perché‚ viene criminalizzato da discussioni estremistiche
che fanno ritenere che chiudere quegli impianti significherà bonificare Taranto
ma così non si bonifica Taranto da 40 anni di veleno non gestiti nel sito
industriale".
Sulla vicenda Ilva esiste un problema di risorse. Si
deve essere consci che ben difficilmente l’Ilva riuscirà a reperire tutte le
risorse economiche per attuare quanto
stabilito dal decreto-legge, così come bisogna aver presente il costo economico
e sociale del risanamento dell’intera area urbana di Taranto che non deve, né
può, gravare solo sullo Stato: la Regione Puglia ha una sua specifica
responsabilità, essendo direttamente competente per le politiche ambientali nel
territorio e in questo caso drammatico la Regione Puglia (che avrebbe dovuto
essere più attenta a quanto accadeva nel centro scopo, per reperire una parte
delle risorse necessarie.
Dovendosi
valutare le vicende che hanno investito il centro siderurgico di Taranto la
prima considerazione è che il Paese si è trovato di fronte a decisioni – senza
anima – adottate da un ordine (è noto che
sotto il profilo costituzionale la magistratura è un ordine) che si è
trasformato in un potere, assumendo provvedimenti di competenza della politica
– assente da anni sui problemi della politica industriale – e incidendo in
maniera economicamente e socialmente rilevante sulle attività produttive del
Paese.
A
questo deve aggiungersi che la vicenda ILVA costituisce il culmine della
“privatizzazione all’italiana” inaugurata da Romana Prodi allorché diede corso
alle privatizzazioni senza liberalizzazioni negli anni Novanta svendendo
l’immenso patrimonio della vecchia IRI ad industriali, o presunti tali.
Nel
caso della siderurgia, “i rottamatori da
forno elettrico” ebbero la
responsabilità di imprese siderurgiche a ciclo integrale tra le più avanzate del mondo, grazie al lavoro di tecnici ed
operai che costituivano motivo di vanto e di orgoglio per il nostro Paese. La
miopia che privilegiava una qualsiasi proprietà privata rispetto a quella
pubblica e l’incapacità di leggere i cicli dell’economia internazionale fecero
credere a chi reggeva in allora le sorti della politica italiana che fossero
superate le industrie di beni strumentali che dovevano essere chiuse o
delocalizzate o svendute a privati di bocca buona compiendo l’operazione
“spezzatino”: non fu un’operazione di “liberalizzazione” della siderurgia (e
non solo) , ma una bieca e sporca “privatizzazione” che consegnò i gioielli
delle aziende di stato a imprenditori che “per grazia divina” venivano
considerati più abili e a capaci di coloro che le avevano portate a competere
sui mercati internazionali anche con risultati prestigiosi. La “deregulation”
divenne l’imperativo categorico di un’intera classe politica italiana, sulla
scia dell’esempio anglosassone; la chimica, la siderurgia, la metalmeccanica,
la progettazione impiantistica, le telecomunicazioni, la siderurgia, la
navalmeccanica ecc. furono declassate ad aspetti residuali dell’economia del
Paese, se non addirittura spazzate via.
Intere
aree industriali furono cedute a prezzi irrisori ai nuovi arrivati, spesso
senza porsi il problema di un diverso e più proficuo utilizzo delle stesse in
termini occupazionali ed urbanistici.
Adesso
siamo giunti al capolinea. I cinesi e gli indiani –ma ben presto altre nazioni
seguiranno – fanno concorrenza a ciò che resta della produzione italiana; i
famosi “rottamatori delle valli pedemontane”
riconsegnano al Paese aziende ed aree ad alto livello di inquinamento, avendo
investito poco o nulla sull’adeguamento tecnologico-ambientale e, magari,
spostano la produzione in Paesi di “bocca buona” in termini di tutela
dell’ambiente e del lavoro.
Per quanto riguarda Genova come
considerare l”accordo di programma”
che mantiene nel cuore della città un’azienda a bassa intensità occupazionale
su ampi spazi preziosisimi a fil di costa, sia per il porto, sia per
l’insediamento di industrie ad alto contenuto tecnologico ?. Un accordo tutto
sbilanciato a favore dell’ILVA, in cui è presente la cassa integrazione in
maniera endemica e che, soprattutto, lega la sopravvivenza dello stabilimento di
Cornigliano all’ approvvigionamento dei semilavorati realizzati nel centro
siderurgico di Taranto.
Fu
una scelta sbagliata - che chi scrive valutò negativamente sin dall’inizio – di
cui Genova paga tutte le conseguenze negative e che, tutt’ora, la stessa classe
dirigente che operò quella scelta continua a considerare positiva (d’altronde ricredersi su quella scelta
sarebbe un suicidio politico……).
Ci sarebbe da svolgere anche qualche considerazione su alcuni ambienti della Curia genovese che sostennero le scelte dell'accordo di programma non si comprende se per cecità o visione paleoindustriale o per comodo accodarsi alla linea politica espressa dalla sinisitra genovese: ma su ciò è meglio stendere un velo pietoso....anche se quei personaggi continuano a sostenere la validità di quella scelta.
Peccato
che a pagare quella scelta siano, adesso, i lavoratori dell’ILVA, quelli
dell’indotto (artigiani, PMI, professionisti ecc.) e le loro famiglie.