giovedì 2 febbraio 2012

Per non sottoscrivere un resa ai fatti

Nell’omelia pronunciata a Cagliari il 17 settembre 2008, Papa Benedetto XVI ha detto con tutta chiarezza che “la politica necessita di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile”. Solo un mese fa, il 14 luglio, monsignor Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ha ribadito che “urgono politici meno subalterni alle logiche di partiti personali, autoreferenziali, funzionali a caste politiche, e staccati dalla società civile”. E venerdì, 19 agosto, intervenendo da Madrid al programma radiofonico Radio anch’io, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha insistito, come già aveva fatto il 10 agosto nell’omelia pronunciata nella solennità di San Lorenzo, su punti nevralgici relativi all’impegno pubblico dei cattolici, a cominciare dal fatto che al centro della politica debbono stare la persona e la famiglia. E sempre da Madrid il cardinale ha affermato che, pur senza “nostalgia” per la loro unità politica, i cattolici oggi “vogliono dare il proprio contributo alla politica, con il loro specifico, fondato sulla dottrina sociale della Chiesa e sui valori”.
Una giusta, più che giusta, presa di posizione. Ma in che modo, per quali vie, attraverso quali strumenti il mondo cattolico può dare il proprio contributo a una politica che, come anche il cardinale constata, è sempre più lontana dai problemi della gente? E a ben ragione nei sentimenti dei cittadini nei confronti della politica si intrecciano disgusto e indignazione, giacché i politici (sia detto con il rispetto di chi lo merita), mentre non perdono occasione per dichiarare di spendere i loro giorni a servizio del popolo, fanno spudoratamente uso del popolo, del consenso del popolo, per servire se stessi, i propri interessi. Schierati a difesa dei loro privilegi acquisiti, si atteggiano a medici dei mali della società, ma la verità è che sono loro a essere la malattia, e la malattia più grave.
Dunque: che fare? Non è un mistero che, con la fine della prima Repubblica, la diaspora dei cattolici nelle diverse formazioni politiche abbia decretato la fine della loro incidenza sulla vita politica italiana. Gira l’idea che non ci siano le condizioni per la formazione di un partito di cattolici – come se le “condizioni” non fossero realtà cui opporsi o realtà da creare. E si continua a ripetere che i cattolici, in qualsiasi formazione politica si trovino a militare, debbano dare testimonianza degli ideali in cui credono. Si tratta, indubbiamente, di una nobile e meritevole proposta morale. Ma ecco cosa accade: in una Commissione o all’interno di un partito, tu cattolico (sempre in minoranza), fai presente e argomenti per soluzioni in linea con i tuoi valori; la maggioranza, però, vota – per convinzione, opportunismo, lealtà al partito, fedeltà al capo, vigliaccheria, bassi interessi – a favore di proposte opposte alle tue; ebbene, tu hai dato testimonianza, hai salvato la tua anima, ma politicamente conti meno di zero. La testimonianza morale non è sinonimo di azione politica. L’azione politica esige l’organizzazione, cioè un partito. E in una situazione come la nostra – con un Parlamento nominato da quattro Caligola e dove una sgangherata coalizione di sinistra rimane geneticamente abbarbicata a forme tossiche di statalismo (si pensi soltanto alla questione della scuola) e dove la coalizione di destra ha fatto del tutto per calpestare ogni barlume di proposta liberale – non è forse necessario, urgente e doveroso da parte dei cattolici liberali dare il proprio contributo
alla politica con un partito di chiara impronta “sturziana” nella tradizione di quel cattolicesimo liberale che da Toqueville, Bastiat, Lord Acton e Rosmini giunge ad Einaudi e Sturzo?
Stanno qui, a mio avviso, le buone ragioni per dissentire da Giuseppe de Rita, il quale (Corriere della Sera, 6 agosto) vede il processo di coagulo del mondo dei cattolici come un obiettivo e un impegno di lunga durata “sul passo lungo, tipico delle forze sociali, delle dinamiche locali, delle fedi religiose”. E l’idea di tempi lunghi viene fatta propria anche da Lorenzo Ornaghi, quando pensa ai cattolici come ad “un giacimento di futuro” (Avvenire, 24 luglio). E nel frattempo, viene subito da chiedere a De Rita e Ornaghi, i cattolici – con le loro innumerevoli iniziative di gruppi, circoli, tra libertas associazioni e movimenti – dovranno seguitare (e fino a quando?) ad affaccendarsi nel “pre-politico” preparando “ascari” per altri eserciti fortemente attivi, ma a modo loro, nel “politico”?
Si domanda Andrea Riccardi (Corriere della Sera, 14 agosto): “La crisi e il vuoto attuale sono segni dei tempi? L’effervescenza cattolica esprime preoccupazione, ma rivela anche un problema irrisolto: su quali tempi muoversi? Quelli lunghi del sociale e del religioso o medi della cultura o brevi dell’emergenza?”. E chi non vede i tratti di una minacciosa emergenza in un sistema formativo (dalle elementari all’Università) privo di competizione; in una gioventù a cui è stata rubata la speranza di un futuro appena decente; in centinaia di migliaia di famiglie gettate sul lastrico; in un sistema economico incapace di ripresa e di sviluppo perché oppresso dalla malavita organizzata, da una burocrazia asfissiante, da un fisco esorbitante e dalla corruzione politica? E che dire dello scontento generato dai tanti casi di malasanità; di una TV sempre meno servizio pubblico e sempre più cattiva maestra; e della disumana situazione dei reclusi nelle nostre carceri? “Visitare i carcerati” era una volta pratica doverosa per i cristiani; ma questo precetto ce lo ricordano ora – e meritoriamente – Marco Pannella e la sua pattuglia di radicali. E perché mai nessun gruppo cattolico nei diversi partiti si è preso cura di ascoltare coloro che forse meglio di altri conoscono i problemi dei carcerati, e cioè i cappellani delle carceri? E ci avviciniamo umanamente ai Rom solo quando ci ritroviamo nella chiesa di Santa Maria in Trastevere a piangere sui loro piccoli morti bruciati o annegati. Intanto i politici si occupano di “altro” (legge Cirielli, lodo Schifani, lodo Alfano, processo lungo, prescrizione breve…) e mentre predicano il merito praticano la più squallida logica della corte – di una corte gremita di servi in livrea e di “clarinetti” ben remunerati. Dunque: occorre forse che l’emergenza monti e si trasformi in uno tsunami perché i cattolici liberali si organizzino in un partito e diano il loro contributo al “processo rigenerativo della politica”? Ovvero c’è da aspettare un’altra guerra combattuta e persa perché i cattolici si sentano chiamati a formare un partito? Insomma: c’è o no, oggi, in Italia l’urgenza di un partito di cattolici liberali? Una vasta truppa è in attesa. Dove si nascondono i potenziali “generali”? Sono anche loro alla greppia? Quando don Luigi Sturzo fondò il Partito Popolare, lo fece anche con l’intento di offrire un aiuto alla Chiesa, nel preciso senso che così la Chiesa non dovesse immergere le mani nella melma della politica. Se sbagliano De Rita, Ornaghi e Riccardi, sbagliano tre cattolici, ma ciò non comprometterebbe l’alto Magistero della Chiesa. Ovvero nella sostanziale marginalizzazione politica dei cattolici, dovremo ancora assistere allo sgradito spettacolo di politici senza scrupoli e di atei devoti sempre all’erta nell’usare la fede degli altri come strumento del proprio potre. Fu Schleiermacher ad affermare nei Discorsi sulla religione che una fede che non è più fine in se stessa, ma solo mezzo per altri scopi, è già morta come fede. Di seguito, Kierkegaard: “Iddio non sa che farsene di questa caterva di politicanti in seta e velluto che benevolmente hanno preteso di trattare il cristianesimo e di servire Iddio servendo a se stessi. No, dei politicanti Iddio se ne strafischia”.
Dario Antiseri
(tratto dalla rivista trimestrale “LIBERTAS” dicembre 2011).