sabato 26 settembre 2009

GENOVA. BUCHI NEL BILANCIO COMUNALE ?

Spesso si è portati a valutare una Giunta che amministra un Ente Locale con i paraocchi del pre-giudizio politico; forse è più corretto e giusto esprimere le proprie valutazioni sulla base dell’azione amministrativa svolta e dei risultati conseguiti.
Tutti sanno che ho sempre valutato negativamente, proprio per un mio pre-giudizio politico, le Giunte di centrosinistra (senza trattino) che da anni amministrano il Comune di Genova.
Tuttavia capisco che è giusto operare in altro modo ed allora esamino l’azione amministrativa delle Giunte di centrosinistra partendo dal un dato che ritengo fondamentale per esprimere un giudizio: la gestione economico-finanziaria.
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Abbiamo, tutti, sotto gli occhi le dichiarazioni rese alla stampa dalla sindaco Vincenzi e dal suo vice Pissarello circa gli effetti della gestione economica-finanziaria delle Società partecipate dal Comune di Genova i cui amministratori sono nominati – per legge – dal sindaco, nonché gli esiti disastrosi della costituzione dell’AMI (bad company “inventata” dal Comune di Genova per cedere il 60 % di AMT ad un privato, operazione curiosa che ricorda quella compiuta per l’Alitalia), che sin dalla sua costituzione è sempre stata in pesante passivo. Ma poi vi è la vicenda di Sportingenova altra azienda in perenne dissesto finanziario, quella della SPIM in sofferenza per l’acquisto di derivato “tossico”.
Tutte vicende venute alla luce, poco prima che la Corte dei Conti rivelasse lo stato comatoso di queste aziende e sottolineasse come l’AMT sia condizionata dalle vicende AMI in maniera tale da mettere a rischio il proprio bilancio.
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Si potrebbe osservare che sono tutte vicende che ineriscono aziende partecipate dal Comune e non il Comune in quanto tale. Distinzione bizantina, in quanto esiste comunque una “responsabilità politica” della Giunta (e delle maggioranze che l’hanno sostenuta) per le scelte compiute al momento della costituzione di queste Aziende, per la scelta dei loro amministratori e per la mancata vigilanza sulle stesse. Ma quel che è peggio è la ricaduta di tali dissesti sui bilanci del Comune che, in qualche maniera ne saranno intaccati. E la sindaco Vincenzi ha già adombrato – chissà se ne ha parlato in Giunta e con la sua maggioranza ? E chissà se si degnerà di investirne il Consiglio Comunale cui spetta approvare il bilancio ? - che saranno necessari interventi che riguarderanno i servizi resi dal Comune e dalle stesse aziende alla cittadinanza genovese. Comunque viene ipotizzato un periodo temprale di dieci anni per rientrare economicamente da questa situazione.
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Di fronte a questo fallimento della gestione economico-finanziaria credo sia lecito esprimere una valutazione negativa delle giunte di centrosinistra che si sono succedute nell’amministrazione del Comune di Genova nel corso degli ultimi 25 anni e delle maggioranze che le hanno sostenute.
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Per carità di patria non tocco la questione “mensopoli” su cui si dovrà pronunciare la magistratura ma che, verosimilmente, ha inciso negativamente nella gestione del bilancio comunale.
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Pertanto, senza alcun pre-giudizio politico, credo sia lecito ritenere opportuno che:

  1. la Giunta Vincenzi (e la sua maggioranza) vada a casa il più presto possibile per il bene della comunità genovese, evitando qualsivoglia “puntellamento” della stessa;
  2. le future alleanze che dovranno amministrare Genova non comprendano il PD, l’IDV e le altre forze minori che hanno composto sinora le maggioranze di centrosinistra;
  3. l’UDC traguardi, per il futuro di questa città, dei compagni di viaggi diversi da quelli che hanno sino amministrato il Comune di Genova: i programmi sono importanti e debbono essere condivisi, ma la capacità gestionale dei Sindaco e dei suoi assessori deve essere provata e non può essere un assegno in bianco.






domenica 13 settembre 2009

AI LAVORATORI PARTE DEGLI UTILI DI IMPRESA

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Nel corso del suo intervento al 30° Meeting di Rimini, il ministro Giulio Tremonti ha lanciato l’idea di rendere possibile, per i lavoratori, la partecipazione agli utili dell'azienda della quale sono dipendenti.
Posta lì, nel corso di un’estate in cui i si discute, in termini sempre più affannati, di come far uscire positivamente il “sistema-Italia” dagli esiti della crisi economica e finanziaria il nostro Paese, la proposta ha suscitato attenzione e qualche entusiasmo.
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Benché molti fanno mostra di essere trasecolati per l’idea del Ministro, occorre rimarcare che quel principio è sancito dalla Costituzione che, all’art. 46, recita : “ Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro, ed in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
Gli atti della Costituente fanno memoria dell’ampia discussione svoltasi per introdurre nel testo costituzionale il principio della partecipazione dei lavoratori alla sorti dell’azienda. Si parlò di “consigli di gestione” da affiancare al “consiglio d’amministrazione”, di inserimento di alcuni dipendenti nel “consiglio di amministrazione”, di “azionariato” dei dipendenti, di “divisione degli utili” aziendali.
In seno alla 3^ Sottocommissione, l’on. Amintore Fanfani (DC) presentò una relazione, molto documentata ed articolata, che prevedeva quali opzioni possibili la partecipazione dei lavoratori alla gestione, alla proprietà ed agli utili delle imprese; i componenti della Sottocommissione optarono, a maggioranza, per la collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, rimandando ad una legge ordinaria i modi ed i limiti dell’esercizio di tale diritto.
Il principio della collaborazione alla gestione dell’azienda – che con termini attuali potremmo chiamare governance – rimase; va ascritto a merito della DC (onorevoli Gronchi, Pastore, Storchi e Fanfani) la formulazione definitiva dell’articolo approvato dall’Assemblea Costituente nel corso della seduta del 14 maggio 1947. L’on. Gronchi – che sarebbe divenuto più tardi Presidente della Repubblica Italiana – nel suo intervento volle rimarcare la volontà della DC di riconoscere la “preminenza del lavoro”, sì da elevarlo alla dignità di collaboratore della produzione e non mantenerlo relegato a quella di strumento della stessa.
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La cultura politica, prima ancora che sindacale, che aveva sostenuto ed ispirato i cattolici presenti all’Assemblea Costituente si rifaceva ai principi della Dottrina Sociale della Chiesa che - sin dalla Rerum Novarum di Leone XIII - ha sempre considerato il lavoro una componente essenziale della produzione. Principio che sarà sempre ribadito dalla Chiesa.
Giovanni Paolo II ha usato un’espressione netta: “priorità del lavoro nei confronti del capitale” (punto 12, Laborem Exercens). Non solo. Ha sottolineato come l’azienda non possa essere considerata solamente una «società di capitali», ma sia anche una «società di persone», ove le persone sono chiamate a fruire di spazi di partecipazione nella vita dell’azienda (punto 43, Centesimus Annus) ed ha invitato i fedeli laici a far diventare il luogo del lavoro una comunità di persone rispettate nella loro soggettività e nel loro diritto alla partecipazione (punto 43, Christifideles laici)
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C’è da chiedersi come mai un articolo della Costituzione, sostenuto da un largo consenso politico e da una profonda cultura sociale ed economica, sia rimasto sinora disatteso. Probabilmente il fatto che nell’industria una larga parte dei lavoratori fosse influenzata dal partito comunista e dalla CGIL, e quindi il timore che venissero prospettate soluzioni economiche e sociali di tipo sovietico, radicalmente diverse da quelle dell’economia di mercato, ha “congelato” l’art. 46 della Costituzione. Tuttavia dopo la fine del blocco sovietico, dell’Internazionale comunista e del PCI, quei timori non sono più giustificati e si dovrebbe dar corso a questo importante principio costituzionale.
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Nel prendere atto che il Ministro Tremonti ha riproposto il tema della partecipazione dei lavoratori alle sorti dell’azienda, occorre notare che vi uno scostamento sensibile dalla previsione costituzionale laddove non si fa alcun cenno alla compartecipazione agli utili dell’impresa, ma si fissa - in maniera ferma - la loro collaborazione alla governance dell’azienda.
E pur vero che sono trascorsi decenni dalla formulazione della Costituzione e tale previsione può essere reinterpretata, salvando il principio del coinvolgimento dei lavoratori alla vita dell’azienda in cui prestano la loro opera, anche alla luce delle esperienze maturate in altri Paesi occidentali, ma non pare del tutto opportuno e possibile ignorare completamente l’art. 46 della Costituzione. Peraltro la sempre maggior presenza di “fondi di investimento” nella compagine azionaria delle aziende pone qualche problema circa i criteri di “governance” perseguiti. E’ noto che i “fondi di investimento” perseguono la logica della remunerazione a breve termine degli investimenti effettuati e non quella della strategia aziendale a medio e lungo termine, con conseguenti ricadute positive sull’occupazione del territorio ove l’azienda è insediata: una strategia del “mordi e fuggi” che non può essere assolutamente condivisa.

Non a caso la CISL, nel porre l’esigenza che la materia – pur disciplinata da una legge quadro – sia affidata alla libera contrattazione fra le parti sociali , ha affermato come “serva una nuova governance che preveda da una parte la partecipazione dei lavoratori ai processi decisionali e di controllo delle aziende e, dall’altra, sul fronte dell’ingresso nel capitale azionario, incentivi fiscali per l’aggregazione del capitale frazionato fra i lavoratori per una reale rappresentanza”. Su analoghe posizioni si trovano l’UGL la UIL.

In questo quadro normativo e propositivo, appare sfasata la posizione della Confindustria che con Marcegaglia e Bombassei ha espresso la propria contrarietà alla cogestione e si è resa disponibile ad esaminare la “l’aumento degli stipendi legato all’aumento della produttività”. Posizione sfasata, perché la Costituzione parla di collaborazione (non cogestione) alla gestione delle aziende e l’attuale dibattito è centrato sulla compartecipazione agli utili ( non all’aumento degli stipendi).
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Nell’elaborazione della legge ordinaria di applicazione dell’art. 46 della Costituzione si dovrà tenere conto delle diverse realtà aziendali (dimensioni, comparto, quotazione in borsa, servizi pubblici, tipologia della proprietà ecc.). Non paiono possibili norme uniformi, a fronte della notevole disomogeneità delle aziende. La “contrattazione di secondo livello” può e deve costituire un’utile strumento applicativo della norma.
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Tremonti ha lanciato il classico sasso in piccionaia, una piccionaia un po’ bolsa ed addormentata sui temi della democrazia economica. Al Parlamento ed alla parti sociali il compito di raccogliere questo sasso e stabilire le modalità, i menù, i diversi modi con cui promuovere l’attuazione del dettato costituzionale. Si eviterà, così. l’ennesimo “effetto annuncio” che da quasi quindici anni inquina la “buona politica”.